Primo Mazzolari – Charles de Foucauld

La strada della pace

Primo Mazzolari (1958)

Nel pomeriggio di ieri, dopo dieci giorni di pioggia, ci fu una schiarita anche al mio paese, uno dei tanti bambini che giocano sotto la mia .finestra è venuto dentro: «Don Primo, c’è il sole.’»

Sono andato a vederlo, prima di tutto perché il sole, dopo tanta caligine, è la speranza, la gioia; e poi perché all’invito di un bambino non ci si può sottrarre senza mancare a quella delicatez­za che il bambino ha sempre diritto di avere specialmente da parte di un sacerdote.

E ho visto il sole.

Vorrei quasi dirvi che Charles de Foucauld è un po’ il sole.

E vorrei dirvi: guardiamolo insieme, avremo la certezza che nella Chiesa c’è quello che noi sentia­mo anche quando non riusciamo a vederlo chiaramente.

Lo conoscevo anche prima, ma il doverne parlare m’ha dato un motivo di più per guardarlo più cor­dialmente (quando si guarda col cuore).

Voi pure lo conoscete.

E nato nel 1858. Veniva da una famiglia nobile. Era un ufficiale di cavalleria francese. Ha dimenti­cato una tradizione familiare, che era cattolica. Ha vissuto come ha potuto. Ad un certo mo­mento ha persino rinunciato ad essere ufficiale dell’esercito, perché la strada che stava battendo non era con­forme neppure alle tradizioni militari francesi.

  • E poi c’è una ripresa. Diventa esploratore del Sahara. Si ritrova come uomo. Ha davanti l’adorazione semplice, spontanea di questi uomini del deserto. Gli fa quasi vergogna questo suo non credere, questo suo non aver niente da dare di fronte a questa gente.

E c’è il ritorno alla fede.

Io credo che la grazia si sia servita di questi poveri arabi del deserto per far sentire a quest’anima che cosa c’è di misterioso e di grande in ogni creatura umana, anche nell’ultima delle creature uma­ne.

Questo ritornare, questo convertirci da strade che sono così lontane e anche tante volte così diverse, non vi dà l’impressione, miei cari amici, di una vitalità cristiana cui bisogna che noi ponia­mo, anche di passaggio, una breve attenzione?

Tutte le altre idee, quando le abbiamo buttate «dietro» le spalle, non ci infastidiscono più.

Solo l’idea, o meglio la realtà, di Cristo non è mai “dietro” abbastanza.

Io penso che Charles de Foucauld ha incontrato Cristo nel deserto. Lo ha visto attraverso creature che forse non avevano mai sentito parlare di lui,

Egli ritorna da un’esperienza di povera vita umana. Uno dei segni vitali della misericordia di Dio è questo ricomporre le nostre povere vite da qualsiasi dolorosa esperienza, è questo cavar fuori quello che giustamente Charles de Foucauld chiamava l’adorazione redentrice.»,

Il suo ritorno non è un ritorno, che si ferma. Dio aveva qualcosa da chiedere a questa creatu­ra, e vo­leva da lui qualcosa che forse subito non fu visto e forse soltanto all’ultimo momento della sua vita Charles de Foucauld ha potuto piuttosto sentire che vedere.

Ci sono dei momenti che non sono e non saranno mai risolti dentro di noi come cristiani. Uno di questi momenti fondamentali è appunto questo: come si concilia il momento puro della fede con il momento puro dell’azione?

Noi siamo in continuo affanno. Non vi accorgete che facciamo così fatica a dire basta a que­sta no­stra giornata, per cui questo camminare del mondo, questo andare del mondo finisce per to­glierci il raccoglimento del nostro animo che la religione deve soprattutto disporre dentro di noi?

C’è un mondo che va e noi gli corriamo dietro; c’è un mondo che si perde e noi lo rincorria­mo attra­verso una strumentalità che non sappiamo più come adattare, come aggiornare, e tutto fini­sce per diventare una tremenda sofferenza.

Adesso guardiamo un momento Charles de Foucauld.

Egli era di un mondo che aveva perduto la fede, perché aveva avuto l’impressione che la fede fosse rimasta indietro al suo pensiero che camminava.

C’è di più: un’altra parte di quel povero mondo in cui egli viveva si allontanava dalla Chiesa, perché sentiva la Chiesa dall’altra parte. Il sacerdote si era staccato, gli altri lo sentivano lontano, i poveri lo sentivano di là.

De Foucauld ha avvertito queste due sofferenze: ha mantenuto il suo cuore vicino a quella categoria da cui era uscito; e ha cominciato a scendere, a scendere vicino a quelli che sentivano la Chiesa dall’altra parte.

Il mistero dell’Incarnazione è tutto qui. É Gesù che discende e si fa ultimo. Questo è il meto­do che il santo ha sempre sentito in una maniera singolare e soprattutto in una maniera che non lo può più frenare.

Vorrei dirvi una parola intorno a quello che è lo stato d’animo di un uomo, il quale, avendo vissuto una certa vita e avendo fatto un’esperienza coloniale, si è ritrovato in una realtà nuova. Chi ha avuto occasione di avvicinare, durante la prima guerra, alcuni ufficiali coloniali francesi, ha av­vertito una singolarità di preparazione umana. Furono i più cari ed anche i più utili incontri del mio servizio mi­litare in Francia. Erano uomini di alta tempra, pieni di difetti se volete, militari fin che volete, ma il senso della responsabilità, che avevano ricevuto attraverso la vita della colonia, quel sentirsi respon­sabili di povere vite, che valevano così poco di fronte alla legge, ma che incomincia­vano a valere molto davanti alla loro coscienza, anche se non molto cristiana, certo profondamente umana, li ave­va trasformati.

Questo itinerario, questa scoperta dell’uomo, prima che del figlio di Dio, voi l’avvertite so­prattutto in Charles de Foucauld. Che cosa hanno detto questi poveri arabi, che cosa hanno rivelato a questo esploratore, a questo ufficiale coloniale. Le rivelazioni più grandi sono quelle che nascono da queste comunioni umane. Gli incontri che determinano le decisioni fondamentali il Signore li fa fare a que­sta maniera.

E allora io capisco che cosa diventa per Charles de Foucauld il momento di Nazareth. Questi trent’anni di vita di Cristo, senza parole, nella comune condizione, in un piccolo paese, dove niente, niente diceva del valore divino che egli portava.

Ecco perché Nazareth diventa il momento ideale del Vangelo che egli deve realizzare. E lo diventa attraverso l’accettazione dell’ultimo posto, che nessuno gli potrà portar via.

Perché l’importante è questo: l’amore all’ultimo si manifesta nell’essere come lui, non nell’avere pie­tà di lui. C’è qualcosa nella nostra maniera di voler bene al prossimo che ha bisogno di essere rive­duta, perché altrimenti noi rimarremo sempre in una insufficienza di carità che non ci aprirà mai i cuori dei nostri fratelli. Ad un certo momento abbiamo l’impressione di poter protegge­re qualcuno. Abbiamo un senso di pietà che nasce da una superiorità, anche inconsapevole, ma che è  sempre una superiorità.

De Foucauld ha sentito che questa non è la maniera vera di voler bene ai figli di Dio. Egli è diventa­to come uno di loro.  Niente di più. Ha accettato di pensare come loro, non soltanto di vesti­re come loro. Lo sforzo che fa per poter apprendere bene il loro linguaggio non è che un mezzo per potersi identificare con loro, cosicché nessuno potesse sentirlo diverso. La più  grande carità è ap­punto que­sto nostro divenire come gli altri, in modo che essi non abbiano da far fatica, direi che non abbiano neanche da alzare gli occhi, per poter ritrovarci: basta allungare la mano, basta guardare l’orma dei nostri piedi, basta vedere come si vive.

E allora voi capite che cosa rappresenta la presenza di un  cristiano nel deserto e in mezzo ai po­veri abbandonati dell’Africa. Perché Charles de Foucauld non ha predicato il Vangelo a questi no­stri poveri fratelli del deserto? Perché non è diventato  un apostolo? Sono domande che è bene che noi ci poniamo, perché il problema dell’apostolato incomincia a diventare preoccupante per noi.

C’è una situazione di animi, non soltanto in quel mondo che è il mondo africano ed il mondo asiatico che non conosce  ancora il Signore, ma anche nel nostro mondo, che ci mette davanti il modo di fare di Charles de Foucauld come qualcosa  che può farci riflettere.

Vedete, bisogna dissodare certi terreni. Oggi c’è una tale indisposizione verso la religione, in certi ambienti, che non possiamo dire una parola senza che questa parola venga interpretata piutto­sto male che bene. C’è qualcosa che va avvertito  prima della parola. Se il Cristo di Nazareth non ha detto una parola per tanti anni, vuol dire che ci sono situazioni spirituali che non hanno bisogno di parole ed a cui forse anche una sola  parola potrebbe essere piuttosto di allontanamento che di acco­stamento.

Charles de Foucauld era lì, vicino a quella gente. Non dico che volesse loro bene, perché è una parola che dice niente, tanto è abusata. Era con loro.

Forse non sentivano da lui parlare di Cristo, però ne vedevano il simbolo sul suo abito che era come il loro. Ad un certo momento, non potevano non avvertire che qualcuno era lì  con loro. Prima di organizzare, prima di predicare bisogna che qualcuno si accorga che c’è Qualcuno. E io credo che per far  accorgere quelli che sono lontani che c’è Qualcuno questa sia  la strada migliore.

Voi mi domanderete quando si arriverà a far sentire per  questa strada il senso del Cristo.

A noi non importa il tempo, come a noi non importa vedere quali possano essere le conse­guenze di queste maniere di vivere vicino alla povera gente che non conosce ancora il Signore.

Da questa maniera di comportarsi di Charles de Foucauld noi incominciamo a intravvedere un’indi­cazione di grande importanza. Che cosa dobbiamo fare per questi nostri fratelli  d’Africa e d’Asia? Charles de Foucauld che cosa porta laggiù di questa religione  che ha dentro? Porta l’amore senza li­miti di queste creature.

Incomincia a diventare il fratello di tutti, il fratello universale. E badate che non si stacca dal suo mondo, perché ogni distacco dal cuore di un fratello è una diminuzione della carità  Egli non si di­mentica di essere francese, ha le sue relazioni con gli ufficiali, mantiene i contatti. Ma nel medesi­mo tempo è uno che è andato di là, è andato di là con tutto il suo cuore di fratello; ed è rimasto qui con tutto il suo cuore di fratello.

La cosa più difficile è appunto questa: non distaccarsi da nessuno. Se io vado di là, con i po­veri, e mi dimentico che qua ho dei fratelli, c’è qualcosa della mia carità che viene diminuita Se ad un certo momento il mio grido diventa un grido e: parte, naturalmente m’impedisce di allargare le brac­cia, di spalancare il cuore dove più c’è bisogno.

I vincoli di questa carità, che voi vedete attraverso la manifestazione così semplice ma anche così concreta di Charles de  Foucauld, sono quelli che finiscono per farci capire come tutti; deve ar­rivare a questo momento di unione. I francesi e i tuareg gli volevano bene. Egli era diventato il fra­tello di tutti. Era diventato il fratello di tutti, perché aveva rinunciato ad avere quello che avrebbe potuto facilmente avere  Ha accettato il niente degli altri, e lo ha rivissuto attraverso questa espres­sione di totale dedizione, per cui nessuno sentiva  di non aver posto nel suo cuore.

Quando voi avvertite l’incapacità del mondo cristiano di ritrovare fiducia presso la gente africa­na, quando voi vedete questa nostra povera Europa cristiana che non sa neanche trovare il ri­spetto fondamentale di quella gente, voi capite bene come  abbiamo bisogno di guardare a Charles de Fou­cauld come all’unico modo di congiungere quella gente a noi, di mantenere  quello che non deve es­sere distrutto e che purtroppo stiamo distruggendo, perché non abbiamo la fede fondamenta­le in quello che è l’offerta e soprattutto il dono della nostra fraternità cristiana. Charles de Foucauld non ha fatto qualcosa di tangibile,  non ha avuto successo, voi sapete com’è finito.

Quando è scoppiata la guerra, nel 1916, lo hanno tradito, ed è morto nel suo eremo, che all’ultimo momento era diventato un fortino. Strana situazione, e che grossa pena per una anima come la sua veder trasformare la sua piccola casa di eremita e di marabutto in un fortino! Però, ve­dete, le casse con le munizioni e i fucili sono rimaste chiuse: nessuno ha sparato, nessuno si è dife­so.

Voi mi domanderete se questa è una maniera d’incontrare  dei poveri.

E allora io vi domando un’altra cosa: che ne pensate voi, del Calvario? Perché, in fondo, quando vedete un de Foucauld  che muore a quella maniera, voi non potete non metterlo vicino al Calvario.

Vi faccio un’altra domanda: sapete voi trovare un altro modo per poter fare la pace tra questi due mondi? E guardate che  quando dico di fare la pace tra questi due mondi io vi posso  parlare di altri mondi. Qual è il linguaggio che può essere capito? Qual è la parola che la religione, la nostra religione, ha in  questo momento per avvicinare questa povera umanità, che altrimenti non ha più la maniera d’intendersi?

Non si può non vederla attraverso questa manifestazione, che a un certo momento pare la più assurda di tutte.

Eppure io mi domando se non è questa la strada della pace. Io non ne vedo un’altra.

Voi potete contare su tante altre maniere, voi potete presentarmele come volete, ma ad un certo momento non rimane che questa espressione: una croce distesa e un povero uomo il  quale viene legato con le mani e i piedi e viene ucciso in quella  maniera barbara che voi conoscete.

Miei cari amici, forse l’aspetto più misterioso della nostra religione, e il più conturbante per molti di noi, è proprio questo:

  • dire a dei cristiani, che pare abbiano qualche cosa da difendere,
  • dire: non c’è nulla da difendere;
  • dire a dei cristiani, che credono  di avere qualche cosa da portare di là attraverso una supe­riorità  che si serve spesse volte della forza: questa non è la strada.

Eppure, se la pace noi la vogliamo accostare cristianamente, se vogliamo disarmare i nostri animi, se vogliamo togliere da questo nostro povero mondo l’incubo che c’impedisce di respirare da uomini e da cristiani, bisogna che noi incominciamo a chiederci se certi assurdi del comandamento «tu  non uccidere», assurdi del Vangelo, di cui voi conoscete bene  le espressioni che non vanno toccate senza mancare all’intangibilità della parola divina, se non sono queste le strade su cui  dob­biamo camminare.

E vedete che vi convergono gli spiriti anche attraverso  esperienze che non sono esperienze religiose.

In fondo, o noi accettiamo una dichiarazione d’amore che  va fatta senza restrizioni, senza misure, oppure dobbiamo diventare quella povera gente che ormai siamo. E non sappiamo  neanche dove ci potremo fermare, e soprattutto quali saranno le conseguenze tremende di questa dimentican­za dell’espressione cristiana.

Perché la vitalità del cristianesimo, la sua prova più grande,  in questo momento, è su questo piano della pace.

Noi continuiamo ad andare a prestito di composizioni dove lo spirito cristiano finisce per es­sere imprigionato in formule  che sanno ancora di paganesimo o di razionalismo.

Abbiamo tradizioni che qualche volta c’impediscono di fare apertamente e decisamente certi distacchi. Crediamo di rinnegare qualche cosa di quella che è la civiltà cristiana. Abbiamo l’impres­sione di staccarci da maniere di vedere consacrate  e da una storia che non è una storia cristiana da una maniera  di vedere che non è una maniera di vedere cristiana.

E abbiamo assunto delle tremende responsabilità. Perché  la più tremenda responsabilità è quella di non saper trovare all’infuori di un equilibrio di potenza una maniera di guardare in  faccia i nostri fratelli.

Abbiamo bisogno di poterci distaccare da queste forme aggiunte alla maniera veramente ori­ginale cristiana che è il comandamento divino «tu non uccidere». Perché, prima ancora  di una giu­stizia tra classe e classe, c’è da mettere una fraternità  tra questi popoli, i quali hanno bisogno di toc­care con mano che c’è qualcuno che ha accettato, come ha accettato Cristo, come ha accettato Char­les de Foucauld di diventare anatema  per qualche cosa che deve essere assolutamente e direi imme­diatamente guardato come la strada regia del cristiano in questo momento.

Quando Charles de Foucauld muore, l’ufficiale francese che per primo è entrato e ha visto lo spettacolo desolante, ha trovato vicino a Charles l’ostensorio: il martire e Cristo vicino.  Forse non è a caso che queste due realtà, che questi due misteri di amore si siano congiunti nell’offerta suprema. La cattedrale nel deserto si costruisce a questa maniera, soltanto a questa maniera. Qui non è più questione di dire: noi urtiamo la civiltà! Io non so che cosa possiamo portare al mondo, miei  cari fratelli, se non la speranza dell’amore.

E allora lasciate che su questa nuova cattedrale del mondo noi possiamo intravvedere come si congiungano le membra sparse di questa umanità, come attraverso un fratello universale si possa­no trovare le maniere di arrivare a queste povere sofferenze umane che sotto qualsiasi colore e sotto qualsiasi accento di lingua hanno l’espressione del Cristo sofferente.  Nell’Africa sono tornati in questi ultimi anni i Piccoli Fratelli e le Piccole Sorelle di Charles de Foucauld.

Che cosa importa che il mondo europeo non abbia più la  possibilità di dire: questa è la mia terra, questo è il mio impero! Un giorno, uno dei suoi figli più nobili, una di quelle creature che ave­va nell’anima anche la forza di rendere testimonianza alla sua terra, alla Francia, attraverso una de­dizione eroica, ha  sentito che non è la forza, che non sono certi metodi di polizia  ignobile, che han­no portato il disonore anche alla civiltà europea, quelli che possono affermare la superiorità di un mondo. C’è un impero che si afferma dove una croce dà un cuore, l’unico simbolo che egli portava, e dove due mani sono piegate  nell’adorazione eterna.

E così, vedete, che si adora Iddio. Lo si adora in spirito e  verità, attraverso una dichiarazione che, se non abbraccia tutti gli uomini, ricordatevi, miei cari amici, che noi dovremo accettare l’umi­liazione profonda di sentire che una civiltà anche meno nobile della nostra ha trovato la maniera di resistere a una civiltà cristiana degradata.

Al di sopra di tutte le affermazioni, c’è questa fraternità che non è una donazione, che non è qualcosa che noi regaliamo, ma semplicemente il ritrovarci, ultimi anche noi, come fratelli degli ul­timi. Soltanto in questa maniera noi potremo trovare la dichiarazione che non ammetterà dubbi, da­vanti  a cui nessuno potrà chiudere gli occhi e soprattutto chiudere il cuore.

Da Discorsi, Dehoniane, Bologna, pp. 596-604.  [riportato in Mariangela Maraviglia, Primo Mazzolari nella storia del Novecento – Edizioni Studium, Roma,2000, pp. 161-170.]

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